Ma vi siete mai trovati dinanzi ad un vigneto di Asprinio d’Aversa con 300 anni alle spalle? Se non l’avete mai fatto e siete degli appassionati di questa meravigliosa pianta dai frutti prodigiosi, dei winelovers per dirla all’americana, vi state privando di uno spettacolo unico al mondo.
I suoi rami (non dimentichiamoci che la Vitis Vinifera è una pianta rampicante..) si inerpicano in su fino a 15 metri ed oltre! I vigneti sono detti anche ad “alberata aversana” o “maritata” poiché per elevarsi a tali altezze devono poggiare ad alberi che facciano da “tutori” naturali, solitamente pioppi. La vendemmia com’è immaginabile avviene con lunghissime scale (in dialetto ò scalill) appoggiate agli alberi, un lavoro da funamboli ed esperti equilibristi. L’Asprinio d’Aversa non si accontenta quindi della sola terra, ma aspira al cielo, al sole, al vento. E’ in assoluto la più bella espressione, in senso estetico, che la Vite, grazie alla sapiente mano dell’uomo, possa regalare. Spoglia poi, come potreste vederla in questa stagione, a me ricorda una Menorah (il candelabro sacro agli Ebrei) che in Primavera saprà accendersi di frutti splendenti. Una vera e propria opera d’arte e patrimonio enologico di cui essere fieri, la cui tecnica di coltivazione in verticale (fatta risalire agli Etruschi) é esistente solo in Campania, nella sempre più ristretta area dell’Agro Aversano. Il vino che ne deriva era paragonato da Luigi Veronelli al pari dei migliori vinhos verdes portoghesi e forse le parole che ebbe a pronunciare Mario Soldati vi faranno comprendere meglio “Perché i più celebri bianchi secchi includono sempre, nel loro profumo più o meno intenso e più o meno persistente, una sia pur vaghissima vena di dolce. L’Asprinio no. L’Asprinio profuma appena e quasi di limone ma, in compenso, è di una secchezza totale, sostanziale, che non lo si può immaginare se non lo si gusta. Che grande piccolo vino!”.
Riguardo alle origini del vitigno ci sono notizie documentali che nominano l’Asprinio a partire dalla fine del 1400, mentre altre fonti ne fanno risalire l’origine al XIII secolo, ovvero alla dominazione degli Angioini del Regno di Napoli. Secondo questa ipotesi sarebbe stato Roberto d’Angiò a chiedere a Louis Pierrefeu, cantiniere della Casa Reale, di individuare dei terreni idonei per piantare un vigneto per produrre un vino spumante per la Corte Angioina, senza così doverlo fare arrivare dalla regione della Champagne. Louis Pierrefeu scelse i terreni tufacei dell’agro aversano, dove poteva essere affinato in grotte di tufo scavate a più di 10 metri sotto terra per conservarlo ad una temperatura costante di 12/14° in ogni stagione dell’anno. A parte questi richiami storici che ne attestano semplicemente l’esistenza già in tali epoche, il che lo farebbe diventare fra i più antichi vini spumantizzati in Italia, c’è di fatto che recenti ricerche non lo indicano come un lontano parente dei Pinot, bensì risulta essere un genotipo del Greco di Tufo, quindi a tutti gli effetti un vitigno autoctono Campano.
Di colore giallo paglierino con riflessi verdolini, come già detto è un vino molto secco, con note citrine, agrumate, lievemente mandorlate, estremamente fresco e minerale. Il classico abbinamento territoriale lo vuole accompagnato con la mozzarella di bufala d’Aversa, ma è ottimo anche con i crostacei, crudi di mare e piatti di pesce non troppo strutturati. Sebbene da fermo abbia dei lodevoli rappresentanti, personalmente ritengo che il suo potenziale lo esprima al meglio nella spumantistica e qui, purtroppo, riflettendo su cosa sono riusciti a fare in Veneto con la Glera, mi duole dire che l’Asprinio d’Aversa rappresenta una delle tante risorse della nostra terra non adeguatamente valorizzate, poiché se in passato ci fosse stata una mentalità imprenditoriale più fortemente legata al territorio, oggi competerebbe sui mercati alla pari con le migliori bollicine francesi e italiane. Basti pensare che fino agli anni 70 l’intero Agro Aversano aveva distese interminabili di Asprinio e nei racconti che ho avuto modo di ascoltare da alcuni vignaioli di una certa età è ancora vivo il ricordo di quanto i Francesi, che ne apprezzavano la peculiare acidità e freschezza, venivano ad acquistarne grandi quantità per utilizzarlo (udite udite!) nei loro blasonati Champagne. Un’altra parte dei produttori invece conferiva all’azienda Buton per la realizzazione del brandy Vecchia Romagna.
Poi purtroppo negli anni 80 a causa di errate scelte della politica e speculazioni edilizie favorite anche dalla criminalità organizzata, portarono questo enorme patrimonio enoico sul punto di sparire per sempre.
Per fortuna oggi, grazie alla caparbietà di produttori storici ed a quelli più recenti, ma non di meno appassionati, l’Asprinio d’Aversa DOC sta lentamente riprendendo il posto che gli spetta. Se qualche curioso o appassionato volesse avvicinarsi a questa eccellenza enologica Campana, mi permetto di segnalare i Borboni e Vitematta, due aziende che apprezzo molto per la qualità dei loro vini e per l’impegno, anche etico, che profondono nella valorizzazione ed il riscatto non solo di un vitigno ma di un intero territorio. Vi lascio con un invito, ovvero quello di scoprire attraverso i vini qualcosa che vada sempre oltre il semplice piacere del buon bere, prendendo coscienza che il vino è molto, ma molto di più. E’ cultura, storia, territorio, appartenenza. Ed in Campania ne abbiamo da vendere!
**Le foto che ti allego sono tratte dalla prima visita che ho organizzato un anno fa da i Borboni
Fonte: laminierablog.wordpress.com
Autore: Massimo Magurno
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